Scienza e Amore

Autore: Stefano Ceccatelli

 

La scienza è uno dei canali che l'uomo ha a disposizione per conoscere il mondo che lo circonda. E' anche il canale privilegiato? Dipende dall'oggetto d'indagine. Se ci occupiamo di atomi e molecole o di quark e gluoni, sicuramente sì; ma se ci occupiamo di razze (uso questo termine anche se improprio, dato che gli studiosi di genetica hanno ormai dimostrato che qualunque ragionamento facente riferimento a razze umane è privo di rilevanza scientifica), culture, dialoghi con persone di convinzioni diverse, allora sicuramente no. Altri canali, in questo caso, sono da preferire, in primis la religione, l'arte e la filosofia.
Amo la scienza, ma mi spaventa il pensiero di una scienza senz'anima, elevata dai mass-media a giudice supremo di bene e di male, di lecito e di illecito. Aborto, eutanasia, procreazione artificiale, cibi transgenici, clonazione di embrioni, sono solo alcuni fra gli ambiti nei quali a questa scienza onnipotente e dispotica è chiesto di fare un passo indietro.
Ma in nome di quale valore più alto la scienza dovrebbe fare un passo indietro? In nome dell'amore.
Una scienza senza amore è una scienza cieca, incapace di conoscere davvero il mondo circostante. La scienza deve mettersi in ascolto: delle esperienze artistiche, letterarie, religiose, come pure della logica e della metafisica.
L'obiezione che si è soliti fare a questo ragionamento è ben nota: tante lingue, tante culture, e così tante filosofie e letterature quante sono le razze che popolano il pianeta; 2+2=4 è invece una verità assoluta e valida a tutte le latitudini. In quest'ottica, dunque, le verità scientifiche sarebbero vere a priori, per tutti, nessuno escluso.
Ma è davvero così? Mi ricordo di aver letto in un'opera di Dostoevskij un personaggio far l'elogio del 2+2=4 ma affermando subito dopo "che anche 2+2=5 è una cosina interessante". In effetti, credo che talvolta lo scienziato debba avere il coraggio di mettere in dubbio perfino le verità più accreditate, anche a costo di rischiare di farsi ridere dietro. Il grande filosofo Paul K. Feyerabend, morto recentemente, lamentava che invece di "pensatori audaci, pronti a sostenere idee feconde anche se non plausibili contro un numero preponderante di avversari, oggi abbiamo timidi roditori accademici che nascondono la loro insicurezza dietro un'oscura difesa dello status quo" ("La scienza in una società libera", Feltrinelli, Milano, 1981, p.213). In definitiva, la scienza come arte. Non sto qui a ricordare quanto era importante, per fisici come Dirac o Einstein, che le leggi della natura fossero espresse da equazioni "belle"; chi ha studiato questo aspetto, è arrivato a dire che le scoperte fondamentali di quei due geni, furono "tutte prodotte da una ricerca consacrata alla bellezza matematica" (John Polkinghorne, Credere in Dio nell'età della scienza, Cortina, Milano, 2000, p.6).
L'audacia di cui prima si diceva è stata, d'altronde, tante volte premiata. Facciamo un esempio storico. Potrebbe esserci affermazione più autoevidente dell'ottava massima di Euclide, secondo cui "la parte è minore del tutto"? Con l'eccezione, pare, di Galilei (vedi al riguardo quanto dice Zellini, "Breve storia dell'infinito", Adelphi, Milano, 1980, p.144), nessuno mai mise in dubbio tale principio fin quasi alla fine del secolo scorso, allorché il grande matematico tedesco Georg Cantor, anche lui di origine ebraica, scoprì che la parte di un insieme non è necessariamente minore del tutto, se l'insieme è infinito. Tale scoperta era così rivoluzionaria che si è dovuto attendere il Novecento inoltrato perché essa fosse definitivamente accolta dagli studiosi.
E' entusiasmante guardare la matematica non più come un'accozzaglia di teoremi da mandare a memoria ma come un'arena dove, talvolta, le più grandi certezze s'incrinano, e contemplare i progressi di pensiero apportati da uomini ricchi d'immaginazione come Galilei, Cantor, Einstein, Godel e tanti altri.
E' allora quanto mai necessario sottrarre la vita, meravigliosamente unitaria pur nelle sue molteplici diversità, al tribunale di una Ragione rigida e autoritaria e far sì che la scienza sia sottoposta ad un controllo democratico, un controllo che dovrebbe essere diritto di tutti, non solo di pochi super- specializzati addetti ai lavori.

 

 

 

Per approfondire:
V.Pelligra, "In difesa dell'anarchismo epistemologico di Paul K. Feyerabend" in "Nuova umanità" 2000/3-4, 129/130, pp.447-461.
R.Bertacchini, "L'infinito e Maria. Provocazioni di un matematico" in "Nuova umanità" 1997/5, 113, pp.607-631.
P.Zellini, Breve storia dell'infinito, Adelphi, Milano, 1980.
John Polkinghorne, Credere in Dio nell'età della scienza, Raffaello Cortina, Milano, 2000