Una comunità globale fraterna da costruire.




Autore: Stefano Ceccatelli



“Il mondo è mondo dell’uomo; ma l’uomo, il cui mondo è il mondo, non sono io solo, non siamo io e tu, ma il grande e comprensivo “Noi” dell’umanità: è la società umana. Solo in comunità noi riusciamo a strutturare il mondo e a risolvere i suoi problemi. Solo ciò che facciamo insieme con lo sguardo rivolto agli altri ha efficacia e consistenza” (1).

Sentiamo queste parole di un grande filosofo, recentemente scomparso, come profondamente vere, soprattutto oggi, in tempi di villaggio globale, o di “globalizzazione” che dir si voglia. Ma come si crea una comunità a misura d’uomo, che è il compito che ci attende, e in questo “ci” sono contenute anche tutte le generazioni passate e future?

Può essere interessante vedere cos’era in origine la comunità, come essa nasce nei vari contesti storici e geografici.

Prendiamo il contesto latino: “com-munus”, da cui comunità, ha un duplice significato. In lingua latina infatti “munus” significa sia “dono” che “obbligo”. La comunità, in questo contesto, era quindi una realtà che da una parte arricchiva vicendevolmente le persone e al tempo stesso le obbligava alla loro responsabilità comunitaria. Le persone, quindi non erano soltanto “dono” l’una per l’altra.

Qualcosa di simile si nota se adesso ci spostiamo nel nord-Europa, in contesto anglosassone. Qui la parola “munus” venne tradotta con “gift” che ha un duplice significato: in inglese significa “dono”, in tedesco significa “veleno”. Ritroviamo quindi la stessa ambivalenza vista prima, sia pur sotto una diversa sfumatura: la comunità è vista come scambio di doni vicendevole fra le persone ma anche come rischio che “l’altro” possa essere “velenoso”, possa dunque farmi male. 

Trasferiamoci adesso in contesto ebraico: dalla Bibbia sappiamo che la prima comunità, la famiglia composta da Adamo, Eva, Abele e Caino, era originariamente buona, e tuttavia il primo fondatore di città fu Caino, dopo essersi macchiato dell’uccisione di suo fratello. E se scorriamo qualche pagina del Libro, vediamo che Giacobbe, la prima radice del futuro Israele, nasce dopo aver lottato con l’Angelo, che al tempo stesso lo ferisce e lo benedice. La comunità di Israele ha quindi inscritta nel suo DNA, potremmo dire, una ferita e una benedizione.

In contesto greco si potrebbero citare i due grandi filosofi Platone e Aristotele, il primo in fuga dalla normale comunità,  vista come apparenza e menzogna, il secondo invece che della stessa comunità evidenzia anche degli aspetti positivi.

Sono sicuro che questa ambivalenza della comunità, dono e rischio per i suoi membri al tempo stesso, sarebbe rintracciabile anche in tanti altri contesti extraeuropei.

Ora azzardiamoci a fare un colossale salto temporale e vediamo cosa è diventata la comunità al giorno d’oggi. Tutti sappiamo che la società occidentale (Europa, USA, Giappone) vive in un contesto di economia di mercato.

Tale economia, nata in Europa nel corso del Settecento, vorrebbe salvaguardare la libertà delle persone, ma al tempo stesso affrancarle dalla dipendenza affettiva verso gli altri membri della comunità. 

Un semplice esempio basterà a chiarire questo concetto: se io, cosa che mi capita spesso, chiedo a mia madre di tenermi il figlio, per uscire magari con mia moglie, ho un debito di riconoscenza nei suoi confronti, che un domani dovrò saldare.

Ma se io pago una baby-sitter per lo stesso compito, non mi restano dipendenze affettive, perché, dopo averla pagata, mi sentirò a posto nei suoi confronti e la mia coscienza non si sentirà in debito verso nessuno.

E’ proprio questo che il mercato persegue: porsi come mediatore fra me e l’altro e farmi sentire affettivamente “immune” dall’altro.

Purtroppo il mercato assolve bene questo compito perché non è chi non veda come i rapporti umani oggi siano deboli, avendo perso la gratuità e la meraviglia dell’incontro, tanto da essere stati sostituiti, in molti casi, da semplici rapporti virtuali (vedi la televisione), dove la dimensione dell’incontro è soltanto simulata.

Il mercato non ci espone più al rischio che l’altro possa ferirci, ma in effetti questa è solo una vittoria di Pirro, che paghiamo caro in termini di felicità e di bellezza (2).

Basta girare per una qualsiasi delle nostre città occidentali per rendersene conto: folle anonime, individui senza volto, freddezza nei rapporti, anche all’interno della stessa famiglia o dello stesso condominio, un’infelicità di fondo che nessuna ricchezza materiale potrà mai riscaldare.

Il mercato ha quindi ucciso la comunità; togliendo il rischio dell’incontro ha tolto anche la possibilità dell’abbraccio fraterno.

E’ questa dimensione che dobbiamo riscoprire, e per farlo bisogna ricominciare a rischiare l’incontro con l’altro e l’altro non lo possiamo scegliere, l’altro ci capita, l’altro è la persona, simpatica o antipatica, bella o brutta, che ci passa accanto nell’attimo presente. 

In questo impegno a costruire la fraternità potremmo prendere a modello figure carismatiche di tutti i luoghi e di tutti i tempi: dal nostro Francesco d’Assisi, che correndo il rischio del bacio al lebbroso, promosse la costruzione dei primi ospedali pubblici europei ed è quindi alle origini del welfare state; a Muhammad Yunus, l’attuale premio Nobel per la pace, che in Bangladesh, sfidando la tirannia delle banche e rischiando di persona con il fare prestiti a povere donne, ha messo su una grande banca, la Greemen Bank, che ha trasformato e reso più fraterno il suo paese.

Ma senza andare tanto lontano consiglio a tutti di passare dal Polo Lionello, frazione Burchio, nei pressi di Loppiano (Incisa Valdarno, FI) a vedere cosa può creare, anche a livello economico, l’amore fra le persone…




Bibliografia


(1)Klaus Hemmerle, Cosmologia, antropologia, sociologia e religione, p.62


(2)Per approfondimenti sulle tematiche qui esposte consiglio di leggere i libri di Luigino Bruni, L’economia la felicità e gli altri Città Nuova, Roma e La ferita dell’altro. Economia e relazioni umane, Casa editrice “Il Margine”, Trento.