Volti della storia. America. Las Casas.


Autore: Stefano Ceccatelli


I malintesi fra indigeni americani e conquistadores europei cominciarono fin dalle prime battute. Ne è testimonianza il nome Yucatan con cui oggi siamo soliti designare l’esotica penisola messicana. Alle esclamazioni dei primi spagnoli sbarcati su quella terra, i Maya rispondono: “Ma c’uhah than” (“non comprendiamo le vostre parole”). Gli spagnoli capiscono Yucatan e decidono che deve trattarsi del nome della provincia. (Todorov, La conquista dell’America).

Hernan Cortes, il capostipite dei conquistatori spagnoli, fu il primo a rendersi conto della necessità di trovare degli interpreti per risolvere i problemi di comunicazione. 

Cortes sfruttò gli interpreti per trovare i punti deboli delle popolazioni indigene messicane e facilitare al massimo la loro sottomissione, che nel 1547, alla sua morte, poteva dirsi compiuta. Non sono i massacri e le distruzioni l’oggetto di questo articolo, argomenti per i quali già esistono innumerevoli testi.

Qui interessa il confronto fra popoli e culture. Nel precedente articolo, infatti, parlando di Colombo e di Vespucci, abbiamo visto come i due navigatori italiani non avessero ancora ben focalizzato la loro attenzione sugli indios, e meno ancora sulla loro cultura. Cortes, che pure rimase ammirato dalle costruzioni degli indios, non li considerava minimamente come persone, tant’è vero che non esitò a procedere a veri e propri massacri.

Le prime proteste contro le violenze dei conquistadores si alzarono per merito di un frate domenicano Bartolomè de Las Casas (1474-1566).

Fu lui il primo a denunciare i metodi di feroce sfruttamento degli indigeni e a rivendicare per loro un trattamento rispettoso di quelli che oggi chiameremmo “diritti umani”. 

Bartolomè era nato in Spagna ma già all’età di 17 anni era arrivato nel nuovo continente e si era installato nell’isola di Haiti, nella sua doppia veste di colono e di prete. 

Rimase colpito dalla violenza con cui i conquistadores trattavano gli indigeni; d’altro canto non rimase insensibile alle condanne di tale violenza, che i frati domenicani pronunciavano dai loro pulpiti.  

La sua maturazione interiore procedette al punto che Bartolomè, nel 1523, sentì di dover entrare nell’Ordine domenicano, liberare gli indigeni di cui era proprietario e di doversi impegnare in prima persona nella denunce delle sopraffazioni subite dagli indios.

La sua Brevissima relazione sulle distruzioni delle Indie, che è il suo testo indubbiamente più celebre, non è altro che uno splendido diamante di una vita intensamente spesa a combattere in difesa dei diritti degli Indios.

Las Casas non si limitò a denunciare i misfatti: avanzò anche delle proposte concrete, giuridiche e politiche, per migliorare le condizioni di vita degli indigeni. 

Alla base della sua azione c’era il presupposto, irrinunciabile per un cristiano, della fondamentale unità del genere umano.

Ma sentiamo come Las Casas descrive gli indios: “Tutti questi popoli universali e innumerevoli, di tutte le maniere, Dio li ha creati estremamente semplici, senza né cattiveria né doppiezza, molto obbedienti e fedeli ai loro signori naturali e ai cristiani che servono; sono i più umili, i più pazienti, i più pacifici e tranquilli del mondo; senza rancore e senza chiasso, né violenti né litigiosi, senza risentimenti, senza odio e senza desiderio di vendetta”.

Il testo non ci convince pienamente;: troppo neutri gli indios di Las Casas, troppo privi di virtù e di difetti. Probabilmente il nostro ardeva dal desiderio di assimilarli subito ai cristiani e di mostrare l’enorme errore di quegli scrittori, come Gines de Sepulveda, che ritenevano gli indigeni creature prive di anima, affini agli animali, e destinate semplicemente a servire. 

Ma anche se si può, usando categorie interpretative moderne, rimproverare a Las Casas l’ “errore” di non aver saputo comprendere e valorizzare adeguatamente la  millenaria cultura di quelle popolazioni indigene, quello che vorrei invece soprattutto mettere in evidenza è la grande importanza di Las Casas da un punto di vista politico e giuridico.

Furono infatti denunce e rivendicazioni come le sue a scatenare la polemica giuridica che, nel giro di poco più di un decennio, avrebbe portato, almeno in linea di principio, al pieno riconoscimento giuridico degli indios come persone, dotate di diritti inalienabili, al pari di chiunque altro. 

Non è un caso che la prima formulazione di un diritto internazionale, che riconosce lo status giuridico di persone a tutti, anche ai non cristiani, e ne fa quindi soggetti pienamente in grado di esercitare i loro diritti di parola, di pensiero, di possesso sulle loro proprietà, arrivò proprio dall’Ordine domenicano, a cui Las Casas apparteneva. 

Alla fine anche il Papa Paolo III, con l’Enciclica “Sublimi Deus” del 1537, riconobbe che quanto chiedevano i Domenicani dell’Università di Salamanca era giusto.

Certo i sovrani europei non riconobbero né il documento papale né, tantomeno, il diritto internazionale chiesto dai professori dell’Università di Salamanca, ma le polemiche che la questione sollevò costrinse almeno la regina spagnola Isabella a limitare il potere dei conquistadores e a rendere più umane le condizioni degli indios.

Complimenti allora a Bartolomè de Las Casas, il più conosciuto fra i difensori degli indios; ma i ringraziamenti andrebbero estesi anche ad altre figure meno conosciute qui in Europa, ma altrettanto significative, come fra Julian Garcies, vescovo di Tlaxcala, e Vasco de Quiroga, primo vescovo del Michoacan, che con le loro opere ed i loro scritti scatenarono importantissime polemiche sui metodi di conquista e di evangelizzazione.

Tutti ecclesiastici, come si vede; il tempo dei laici impegnati in politica era ancora di là da venire….



Per approfondimenti: 

T.Todorov, La conquista dell’America, 1992; M. Nieves Tapia “Celebrare o condannare? Cinquecento anni dopo Colombo”, in “Nuova Umanità”, 85, 1993.