Riprendiamo un articolo pubblicato il 9/12/2005 dal quotidiano "Liberazione". Ci sembra che inquadri bene una situazione che va al di là del contendere specifico ed investe questioni più ampie ed altrettanto importanti.

Ringraziamo "Liberazione" per l'amichevole concessione alla pubblicazione sulle nostre pagine.

 

Due ore da Torino a Lione e un anno per fare la Tac...


Autore: Giorgio Cremaschi

Una lotta che può vincere. Questo è quello che sempre più chiaramente emerge dalla mobilitazione dei cittadini della Valle Susa e di tutti coloro che li sostengono. Può vincere non solo perché è fondata sulla determinazione e sulla grande partecipazione dei diretti interessati, ma perché parla a tutti. E' l'opposto di quella rivolta locale quale la definiscono tanti commentatori e tanti politici. Esprime, partendo dalla vita concreta della valle, problemi e sentimenti che sono di noi tutti. E' il locale che diventa globale. Riguarda tutti la questione di quale sviluppo e di quali costi dello sviluppo. Un cartello dei manifestanti diceva: "Tra venti anni mio figlio andrà a Lione in due ore e io dovrò aspettare un anno per una Tac". Ecco, in tanti sentiamo la rabbia per lo spreco enorme di risorse, spese per guadagnare tempo dove non è strettamente necessario, quando bisognerebbe spendere molto di più per migliorare davvero la qualità delle nostre vite. E questa rabbia è alla base di tante lotte che contestano la concezione dominante dello sviluppo.
Ma, oltre a questo e più di questo, c'è la questione della democrazia. Questa lotta suscita un così vasto e diffuso contagio, una così spontanea solidarietà, perché parla delle nostre libertà essenziali. Ci mette di fronte alla continua riduzione delle nostre possibilità di scelta, e al fatto che ogni decisione ci viene imposta dal mercato, dai poteri globalizzati, dalla crisi della politica. Così basta poco - un appello per sms, un'informazione passata di bocca in bocca - e decine di migliaia di persone, operai, studenti, cittadini si trovano a manifestare in Valle Susa.
Questa è la politica, la buona politica che viene dalla partecipazione diffusa delle persone. Ma cosa c'è dall'altro lato, da parte del potere politico ufficiale? Paradossalmente, mentre il locale della Valle Susa parla a tutti, il potere politico, che dovrebbe essere espressione dell'interesse generale, comunica solo con se stesso. Quello rischia di essere il vero luogo della chiusura localistica. Come si fa infatti a non capire che non è possibile che tante decine di migliaia di persone siano solo fuorviate da una cattiva propaganda o da poca informazione? E' paradossale questa questione dell'informazione. In un paese dove la televisione è in mano a una sola persona e i grandi giornali, in quelle di pochi altri potenti, sono proprio coloro che comandano l'informazione che si lamentano di non essere capiti?
La verità è che sono loro che non capiscono e così rispondono in modo confuso, nervoso. Con la brutalità dell'intervento poliziesco, l'ottusa trasformazione di una grande vicenda popolare e di civiltà in una questione di ordine pubblico. Il ministro dei Trasporti ha minacciato le popolazioni della Valle Susa, intimando loro di mettersi il cuore in pace. Se lo metta lui.
Perché questo è il nodo della questione. Oramai è chiaro che chi vuole fare la Tav a tutti i costi si è messo in un vicolo cieco. Di fronte a questa resistenza non violenta e diffusa, a questo consenso popolare in tutto il paese, la Tav non si può fare. E qui c'è la crisi della politica. Perché anche l'altra parte, quel centrosinistra che oggi parla di dialogo, finora non ha proposto nessuna alternativa politica concreta alla militarizzazione della valle. E' da apprezzare, naturalmente, che si condannino i brutali interventi della polizia. Ma non basta. Bisogna dire cosa si fa di alternativo e non semplicemente sperare che chi lotta prima o poi si stanchi. Perché questo non succederà.

9 dicembre 2005