Autore: Giorgio Cremaschi
Una lotta che può vincere. Questo è quello che
sempre più chiaramente emerge dalla mobilitazione dei cittadini
della Valle Susa e di tutti coloro che li sostengono. Può
vincere non solo perché è fondata sulla determinazione
e sulla grande partecipazione dei diretti interessati, ma perché
parla a tutti. E' l'opposto di quella rivolta locale quale la
definiscono tanti commentatori e tanti politici. Esprime, partendo
dalla vita concreta della valle, problemi e sentimenti che sono
di noi tutti. E' il locale che diventa globale. Riguarda tutti
la questione di quale sviluppo e di quali costi dello sviluppo.
Un cartello dei manifestanti diceva: "Tra venti anni mio
figlio andrà a Lione in due ore e io dovrò aspettare
un anno per una Tac". Ecco, in tanti sentiamo la rabbia per
lo spreco enorme di risorse, spese per guadagnare tempo dove non
è strettamente necessario, quando bisognerebbe spendere
molto di più per migliorare davvero la qualità delle
nostre vite. E questa rabbia è alla base di tante lotte
che contestano la concezione dominante dello sviluppo.
Ma, oltre a questo e più di questo, c'è la questione
della democrazia. Questa lotta suscita un così vasto e
diffuso contagio, una così spontanea solidarietà,
perché parla delle nostre libertà essenziali. Ci
mette di fronte alla continua riduzione delle nostre possibilità
di scelta, e al fatto che ogni decisione ci viene imposta dal
mercato, dai poteri globalizzati, dalla crisi della politica.
Così basta poco - un appello per sms, un'informazione passata
di bocca in bocca - e decine di migliaia di persone, operai, studenti,
cittadini si trovano a manifestare in Valle Susa.
Questa è la politica, la buona politica che viene dalla
partecipazione diffusa delle persone. Ma cosa c'è dall'altro
lato, da parte del potere politico ufficiale? Paradossalmente,
mentre il locale della Valle Susa parla a tutti, il potere politico,
che dovrebbe essere espressione dell'interesse generale, comunica
solo con se stesso. Quello rischia di essere il vero luogo della
chiusura localistica. Come si fa infatti a non capire che non
è possibile che tante decine di migliaia di persone siano
solo fuorviate da una cattiva propaganda o da poca informazione?
E' paradossale questa questione dell'informazione. In un paese
dove la televisione è in mano a una sola persona e i grandi
giornali, in quelle di pochi altri potenti, sono proprio coloro
che comandano l'informazione che si lamentano di non essere capiti?
La verità è che sono loro che non capiscono e così
rispondono in modo confuso, nervoso. Con la brutalità dell'intervento
poliziesco, l'ottusa trasformazione di una grande vicenda popolare
e di civiltà in una questione di ordine pubblico. Il ministro
dei Trasporti ha minacciato le popolazioni della Valle Susa, intimando
loro di mettersi il cuore in pace. Se lo metta lui.
Perché questo è il nodo della questione. Oramai
è chiaro che chi vuole fare la Tav a tutti i costi si è
messo in un vicolo cieco. Di fronte a questa resistenza non violenta
e diffusa, a questo consenso popolare in tutto il paese, la Tav
non si può fare. E qui c'è la crisi della politica.
Perché anche l'altra parte, quel centrosinistra che oggi
parla di dialogo, finora non ha proposto nessuna alternativa politica
concreta alla militarizzazione della valle. E' da apprezzare,
naturalmente, che si condannino i brutali interventi della polizia.
Ma non basta. Bisogna dire cosa si fa di alternativo e non semplicemente
sperare che chi lotta prima o poi si stanchi. Perché questo
non succederà.
9 dicembre 2005