Autore: Flavio Gori
Gli Stati Uniti non fanno eccezione al modus operandi che prevede la capacità, l'opportunità di influenzare la pubblica opinione. Perfino le guerre non sfuggono a queste regole. Assistiamo quindi ad azioni militari la cui necessità può venire originata e supportata da istituti di studio e ricerca politico-economica con l'aiuto di personaggi operanti in vari settori inclusi gli organi di informazione che, più o meno consapevolmente si lasciano guidare a scrivere, dire e forse financo pensare ciò che in altri ambienti si presume si desidera essi facciano, in modo da orientare di conseguenza lettori, ascoltatori e fruitori in genere. In realtà non è necessario che chi opera in quegli ambienti dica alcunché. Si tratta di percezioni ambientali, diciamo così e quindi nessuno di loro potrà mai essere incolpato di qualcosa.
Ultimamente, e non solo in America, sembra quasi che siano i pubblicitari ad avere meglio interpretato il mestiere che potremmo definire di coinvolgimento di massa.
In altri casi si approfitta di momenti e accadimenti storici contingenti
in virtù dei quali si entra nei conflitti e grazie alla
preponderante forza militare si creano le condizioni per influenzare
l'area sottoposta ad azione militare per gli anni a venire con
l'installazione di basi militari in varie zone dell'area interessata.
Con questi sistemi i vari governi che si sono succeduti alla guida
della super potenza, ma non solo di questa, sono stati in grado
di controllare via via una parte sempre maggiore del globo e continuano
tuttora a rendere sempre più stringente e geograficamente
completa la loro presenza.
E' vero: sarebbe necessario l'accordo del Governo locale, ma anche
in Italia abbiamo talvolta visto che questo non è il maggiore
problema.
Questo modo di agire si è sempre più connesso
con l'evoluzione del capitalismo americano, creando una commistione
molto stretta fra grande capitale e forza militare. Fino al punto
che oggi può non essere facile capire fin dove è
il capitale che supporta l'azione militare o viceversa.
L'evoluzione del capitalismo novecentesco nel liberismo dei primi
anni del terzo millennio, susseguente ed in qualche modo favorito
(o viceversa) dai fatti del settembre 2001 ha portato al successo
quasi definitivo un'idea estremamente pericolosa che si sta svolgendo
sotto i nostri occhi ma di cui pochi sembrano rendersi conto e
ancora meno sono quelli che ne parlano: la diminuzione di capacità
decisionale e operativa degli Stati sovrani in ogni parte del
mondo, a favore della crescita esponenziale del potere delle grandi
multinazionali per lo più con capitale di controllo in
mano americana.
In controtendenza vediamo alcuni capitalismi di stato già
in grado di mettere in difficoltà le più grandi
e potenti compagnie americane; ricchissime, ma non abbastanza
da sostenere le battaglie geo-politiche in fase di svolgimento
a livello planetario per l'accaparramento delle risorse primarie,
oggi petrolio, gas e uranio, domani l'acqua, il grano, il mais
e forse anche l'aria respirabile.
A metà 2007 le grandi società americane controllavano
non più del 33% del mercato petrolifero. Il resto era già
in mani di altre società a capitale Statale.
Quello che è sempre più evidente è comunque
la diminuzione di potere e d'influenza degli Stati sovrani in
ogni parte del mondo, inclusa l'Europa, a favore delle grandi
compagnie internazionali che sono in grado di influenzare anche
in maniera decisa qualunque Stato democraticamente eletto con
il ricatto degli investimenti, che poi sono per la maggior parte
a favore degli interessi delle compagnie e non certo di altri.
Compagnie che ormai vogliono avere il controllo anche di beni
assolutamente primari e non commerciabili come l'acqua, in attesa
di operare sull'aria stessa.
Ciò testimonia la forza e la sfrontatezza che al momento
queste compagnie hanno e non si peritano neanche di fare richieste
palesemente assurde che mai avrebbero avanzato 30 anni fa, almeno
in Europa. Sintomo dei rapporti di forza che sembrano scivolare
verso quelli dell'inizio del 1900.
In tutto questo, resta a me oscura la strategia messa in atto
dalla politica e dai politici (Italia compresa) per non essere
sopraffatti a semplice ruolo di vassalli del potere economico.
Ridotti al ruolo di notai di decisioni prese altrove.
Se non si tratta di incompetenza, in cambio di cosa i politici
si sono trovati a rivestire questo ruolo subalterno, in maniera
così evidente e ad ogni livello, anche comunale?
E' curioso comunque che un simile spostamento in avanti del potere
capitalistico di chiara origine americana, potrebbe offrire il
destro se non alla definitiva sconfitta, almeno alla seria messa
in difficoltà dello stato americano.
Una volta crollato l'impero USSR, sembrava che gli Stati Uniti non avessero che da vivere di rendita ideologica. Il sistema capitalistico stava trionfando, i popoli dell'Europa dell'Est sognavano l'American Way of Life da decenni e sarebbero stati un eccellente base su cui perpetuare il successo a stelle e strisce.
Invece sta succedendo qualcosa di inaspettato: le grandi strutture
commerciali americane, libere dal vincolo rappresentato dall'USSR
per il quale tendevano a operare per quanto possibile all'interno
dei confini americani, hanno deciso che acquistando dall'industria
manifatturiera americana, i margini di guadagno non erano più
soddisfacenti.
Era quindi opportuno trasferire la realizzazione dei prodotti
in estremo oriente, dove la mano d'opera sarebbe stata pagata
con salari molto più bassi e, nonostante i costi di trasporto,
i margini di guadagno sarebbero schizzati verso l'alto per la
gioia dei portafogli degli azionisti, almeno nel breve e medio
termine. Questo avrebbe significato che il Governo americano (centrale
e locale) sarebbe andato incontro a perdite importanti fra i suoi
contribuenti diminuendo le sue capacità d'investimento,
sia nel sociale che nella ricerca, ma il mercato aveva deciso
così.
In questo modo, oltre che togliere il posto di lavoro agli
americani prima e gli europei dopo, si gratificavano le tasche
degli industriali orientali che, in certi casi, erano controllati
dal Governo locale, con la conseguenza che per il guadagno immediato
degli azionisti, sempre più voraci, si pregiudica la solidità
dello Stato centrale, con relativo declino.
E il Governo centrale sembra non saper come trattare la questione,
per basilare che sia. Forse non ne avverte appieno le potenzialità
o, almeno negli ultimi anni, non la ritiene primaria.
Dunque siamo al paradosso: il sistema capitalistico americano
soccombe alla sua stessa cupidigia.
Se è vero, com'è vero, che il grande capitale
è in grado di sfilare letteralmente dalle casse federali
miliardi di dollari essendo riuscito nell'impresa di privatizzare
praticamente tutto evitando nel contempo di pagare le tasse eleggendo
sedi legali e amministrative in paesi compiacenti, provocando
di conseguenza un forte impoverimento dello Stato americano, è
vero anche che Russia, Cina, India e qualche altro Stato hanno
iniziato a sviluppare forme di capitalismo statale di dimensioni
tali che ormai (e quindi in pochissimi anni) sono in grado di
rivaleggiare e già in molti casi di sconfiggere pesantemente
le società americane, giapponesi ed europee in aree chiave
di settori altamente strategici.
E' il caso di Shell e Mitsubishi che nel 2006 hanno dovuto lasciare
alcune aree estrattive Siberiane (acquisite a prezzo di favore
durante l'era Eltsin) a esclusivo vantaggio di società
controllate dallo Stato russo.
La sconfitta è tale anche per lo Stato americano che
così inizia a diminuire la sua influenza economico-finanziaria
a livello mondiale e forse anche una perdita di carattere strategico
nei rapporti con quei Paesi che (sotto certi aspetti) hanno la
sfortuna di avere minerali strategicamente importanti nei loro
sottosuoli, com'è il caso di alcuni Stati africani come
la Nigeria, dove recenti importanti accordi sono stati siglati
fra il Governo locale e la Cina.
Queste difficoltà, insieme a una scarsa volontà/propensione
all'investimento di varie corporation americane, farebbero pensare
che il sorpasso del capitale di certi Stati su quello delle corporation
americane sia abbastanza prossimo. E non su base isolata come
è stato finora.
In questo scenario ci potremmo aspettare una conseguente diminuzione
d'interesse per il dollaro in quanto moneta di scambio internazionale
e quindi una diminuzione di acquisti della valuta americana da
parte delle principali banche centrali internazionali che, non
bastasse il resto, da sole detengono, come si ricordava nella
prima parte, una percentuale rilevante del debito pubblico statunitense,
ovvero finanziano buona parte della propensione del popolo americano
per l'eccesso di spesa delle famiglie, delle aziende e dello Stato
federale in genere e per gli acquisti nel campo energetico in
particolare.
2) Continua.