Dalla fine della storia al re-inizio.


Autore: Flavio Gori


Dopo che molte testate specializzate o meno (loscrittoio.it inclusa con la serie di articoli Gli Stati Uniti, il Dollaro e gli altri) ne hanno discusso per mesi, nella seconda metà del 2008 la crisi internazionale che già si stava facendo largo fra le maglie della finanza mondiale, si è presentata in tutta la sua forza dirompente, offrendo un’ulteriore spunto di riflessione sugli Stati Uniti, la loro politica finanziaria interna ed estera.

In molti casi abbiamo assistito a condanne nette, seppure ben tardive, da parte di buona parte (per non dire tutti) degli esperti internazionali. Gli stessi che fino a poche settimane prima continuavano a ignorare i numerosi segnali poco rassicuranti che provenivano da numerosi osservatori finanziari. Certo, volendoli leggere.


Adesso, lo sappiamo, è tutto un rincorrersi di tardive Cassandre che cercano di far presente la vastità del problema e l’estrema difficoltà di risolverlo, anche se i Governi di tutto il mondo decidessero (come probabilmente faranno) di catapultare molti miliardi di Dollari o Euro nelle banche in difficoltà (circa l’80% dell’intero numero delle banche nel mondo, a voler essere ottimisti).

Non bisogna comunque dimenticare che la grande passione per i titoli ad alto rischio aveva pervaso anche buona parte delle amministrazioni regionali, provinciali e comunali, oltre che nazionali e quindi non ci dovremmo sorprendere se anch’esse prima o poi arriveranno a chiedere aiuti a qualcuno che li potrà dare.

Stante la situazione economica internazionale, non sarà facile trovare chi è in grado di aiutare, a meno che non si agisca per imperio.


Sappiamo che molti commentatori stanno dedicando tempo e inchiostro al problema e anche se questo non è di per sè garanzia di risoluzione garantita; mi vengono in mente quegli esperti di politica economica che pochi mesi prima dello scoppio della bolla subprime e derivati, si affannavano a lamentarsi del fatto che i risparmiatori italiani erano (secondo loro) un po’ troppo risparmiosi, al contrario di quelli anglosassoni, considerati come esempio che avremmo dovuto seguire. Il punto che questi esperti sottolineavano era che se anche gli italiani avessero speso (indebitandosi) come gli americani e gli inglesi, il mercato che tutto regola sarebbe stato in miglior salute e noi avremmo guadagnato di più vivendo più felici.


Ovviamente in queste settimane post-bolla, gli stessi esperti di cui sopra, si sbracciano per sottolineare la rettitudine dei risparmiatori italiani che, al contrario di quelli anglosassoni, hanno mantenuto un livello di spesa più ragionevole evitando ammanchi difficili adesso da ripianare.

Speriamo di andare avanti senza questi esperti e proviamo a ragionare con le nostre teste.



La fine della Storia?


Alla fine della Guerra Fredda, alcuni esperti dichiararono che la Storia era nientemeno che finita. Nientemeno. Come se la storia fosse figlia delle diatribe fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica e che una volta crollata una delle due niente sarebbe più rimasto. A volte ci sono persone che dichiarano assurdità di ogni genere come se fossero circondati da sordi o da ebeti che adorano ascoltare slogan il più vuoti possibile. E in effetti anche quella volta pare sia stato così, dato che nessuno che io sappia, si è sentito in dovere di ridicolizzare una simile affermazione come avrebbe meritato.


Dunque dicevano che la storia era finita e non ci sarebbe stato altro da fare che vivere alla grande dato che le enormi ricchezze che il capitale era in grado di generare sarebbero andate a vantaggio della popolazione. A chi più, a chi meno, ma più o meno un po’ a tutti. Evviva.


Naturalmente, anche in questo caso, eravamo davanti a esperti poco esperti e casomai oracoli molto interessati a glorificare il vincitore. Iniziava l’era dedicata al mercato, era l’ora non di vincere ma di stravincere, senza fare prigionieri, secondo il concetto efficacemente espresso da qualche esponente del Popolo delle Libertà appena dopo una delle loro vittorie elettorali qui in Italia.


Ecco che l’economia mondiale e, ancor prima la popolazione del mondo (almeno quella che sa leggere e che può permettersi di ascoltare radio e TV) inizia a essere bombardata da articoli che pur non affermandolo esplicitamente cercano di instillare almeno il dubbio che il posto fisso è un concetto antiquato e logoro. Che serve solo agli anziani che stanno per andare in pensione (magari!) E quindi se vogliamo affermare la nostra giovinezza (nei fatti se non proprio anagrafica) dobbiamo guardare oltre. Parolina magica che sentiremo tornare spesso negli anni fra il 1995 e il 2008 e che servirà per cercare di demolire molte delle conquiste che il movimento operaio aveva faticosamente guadagnato con anni di lotte.


Ma non si sono fermati agli articoli nei media di vario tipo. Il livello di lotta propagandistica si è servito in maniera più esplicita che non in precedenza anche di un altro strumento: i sondaggi.

Nati come sistema per misurare il polso di una certa condizione, da un certo momento si trasformano in strumento per creare una certa condizione, influenzando i lettori in maniera abbastanza plateale, con trucchetti semplici ma non da tutti evidentemente compresi.


Dunque a un certo punto, verso la metà degli anni ‘90, sono sempre di più i sondaggi che si leggono su quotidiani e riviste dai quali risulta che se non la maggior parte della popolazione del mondo, almeno quella più ricca, acculturata, sotto i 35 anni, che vive al nord e con una propensione all'acquisto e al divertimento superiore alla media, è favorevole all’abolizione del posto fisso. 


Si cerca con questo di sviluppare un orientamento che per quanto sfavorevole in toto alle persone a cui si riferisce, cerca comunque di raggirarle facendole credere che se vogliono esser parte della crema sociale, è opportuno che cambino idea sulla necessità di garantirsi un futuro.

Impresa apparentemente disperata: chi mai scambierà il sicuro per una finzione di benestare?

Allo stesso tempo si comincia a far serpeggiare l’idea che l’economia del mondo non può continuare ad essere ristretta al locale anche se con questa caratteristica il mondo si è fino ad ora evoluto, sviluppando capacità operative e specializzazioni non indifferenti. Inoltre questa caratteristica ha permesso di riciclare il denaro all’interno delle varie aree, riuscendo a far si che tutti abbiano un vantaggio reciproco dall’economia locale. Questo certamente non esclude che vi possano essere scambi anche importanti con altre parti del mondo, ma l’economia primaria si svolge su questi binari e garantisce la sopravvivenza e al tempo stesso i prodotti restano nelle zone di produzione limitando al minimo gli spostamenti e quindi la produzione di inquinamento e rifiuti collegati ai vari impacchettamenti. Tutto bene, quindi.


Per nulla! In entrambi i casi in esame, la propaganda del potere economico riesce a far trionfare gli aspetti che più le servono e lasciare i cittadini non solo con un pugno di mosche, ma riescono anche a snaturarne la vita sociale ed economica, lasciandoli dopo pochissimi anni, in braghe di tela.


La stessa catena Coop abbandona i centri dei piccoli paesi per trasferire i propri negozi in aree periferiche per poter ampliare i metri quadri da adibire alla vendita, senza tener presente che così facendo si sarebbero creati problemi di difficile soluzione a tutte quelle persone non fornite di auto e che non potevano permettersi di percorrere chilometri fra le loro abitazioni e le sedi Coop con borse pesanti. Bisogna riconoscere che in certi casi l'azienda ha fatto un passo indietro riaprendo almeno i negozi alimentari e in altri ha lasciato aperte le sedi in procinto di esser chiuse, ma come considerare gli aspetti politici e sociali connessi con certe scelte? E come valutare commercialmente la scelta di lasciare certe aree quando poi le stesse vengono affittate a un concorrente diretto? Quali sono gli aspetti che la differenziano dai concorrenti non legati alle questioni sociali che dovrebbero stare alla base della Coop fin dalla sua nascita e di cui si serve per amplificare il proprio messaggio pubblicitario?


Così va il mondo, sinistra di oggi compresa, evidentemente, ma poi non lamentiamoci se alle varie tornate elettorali la presunta sinistra perde voti a vantaggio di partiti che fanno ciò che prima faceva la sinistra: stanno con e fra la gente.


Dunque a partire dalla metà degli anni 90 si comincia a ben percepire il tipo di società che si sta preparando, anche grazie alle politiche dei nipoti“ dei vecchi politici della sinistra vera, in barba alle ipotesi ottimistiche avanzate solo pochi anni prima.


Gli Stati Uniti lanciano l’idea della globalizzazione, ovvero una società unica, allargata al mondo intero, dove le leggi saranno quelle del mercato che, si giura, è in grado di autoregolarsi per il meglio della gente. La concorrenza farà si che i prezzi non salgano e tutti staranno bene. Non ci sarà più bisogno del Socialismo.

Questo permetterà di spostare le produzioni dai Paesi ricchi a quelli poveri dove la mano d’opera costa assai meno e quindi ci saranno prezzi un po’ più bassi per il consumatore (una volta detto: cittadino), ma anche profitti molto più alti per i commercianti nei Paesi Occidentali che venderanno dove ci sono gli acquirenti, dato che nei Paesi poveri si può produrre ma non comprare a causa dei salari da fame che di per sè garantiscono i fortissimi guadagni degli importatori, dei rappresentanti e dei rivenditori.


Quindi un  primo punto: ci sono troppi passaggi fra la produzione e il cliente finale. Questi determinano aumenti intollerabili nei prezzi e nella inflazione reale. Ciò è vero anche nel caso di prodotti nazionali.


Ma ci sono altri punti base: il continuo trasferimento della produzione verso Paesi a basso costo di mano d’opera genera, inevitabilmente, un progressivo impoverimento dei Paesi consumatori che a un certo punto, fine 2008, realizzano le condizioni in cui si trovano, bloccano le spese e di conseguenza le vendite dei negozi di qualunque tipo e come ulteriore conseguenza il blocco dell’economia reale. D’altro canto non hanno più industria manufatturiera e chi vi era impiegato non ha un lavoro. Senza lavoro non si compra, anche se i prezzi sono più bassi di prima. 

Che razza di ragionamento è stato questo? E’ valido solo nell’ottica del grande capitale e della grande distribuzione, ma è comunque assai miope.


Questo sarebbe già di per sé un problema molto grave, ma se pensiamo che arriva insieme al crollo di tutti i mercati finanziari internazionali a seguito dell’esplosione della bolla dei mutui subprime americani ma poi allargata a tutti i mercati del mondo, si capisce che a fine 2008 il mondo intero si trova di fronte ad una crisi di dimensioni galattiche.


Nessuno compra, nessuno vende, i soldi sono pochi e non lasciano le tasche dove si trovano. Il blocco completo del mercato dimostra una volta di più l’inefficacia del mercato come regolatore globale. Banche, compagnie assicurative, immobiliari, finanziarie di ogni tipo si affannano a invocare l’aiuto dello Stato (ovvero di tutti quei cittadini che non hanno accesso ai guadagni quando le cose vanno bene per il grande capitale) per cercare di sanare una situazione creata dall’uso del tutto sbagliato delle leve economico-finanziarie che i privati avevano sfilato dallo Stato perché si ritenevano più bravi e di questo avevano convinto una classe politica inerme, pigra e probabilmente corrotta, oltre che inefficace. Anche a livello locale.

Banche e società di primarissima importanza in tutto il mondo, dalla Svizzera alla Cina, dagli Stati Uniti al Giappone passando per il Regno Unito e i Paesi Arabi grandi esportatori di petrolio, si trovano in grave difficoltà e il grido è per tutti lo stesso: "ci salvi lo Stato che i guadagni li prendiamo noi"!


E’ vero, tutti appaiono in grave difficoltà, anche negli Stati Uniti ci sono Istituti finanziari e bancari che fino a 1 secondo (letterale) prima dell’amministrazione controllata erano valutate al massimo livello (Lehman Brothers, per esempio), facendo balenare un ulteriore problema non da poco: quale credibilità meritano istituti di valutazione che sbagliano (ammesso che di errore si tratti) in questo modo?



Ma qui abbiamo una diversa possibilità, da qui potremmo forse iniziare a concepire questa crisi in maniera diversa da quello che si legge su tutti i media del mondo.


Lehamn Brothers è (o forse era) una banca d’affari molto potente. La quarta per importanza finanziaria negli Stati Uniti. Un colosso sui cui hanno puntato molti: dal piccolo risparmiatore alle banche, dai comuni di provincia agli Stati di tutto il mondo. In effetti Lehman è la banca americana che ha acquisito la maggior quantità di capitali da fuori gli States. Ed è l’unica che lo Stato americano ha messo in amministrazione controllata, primo passo verso il fallimento. Da quel momento nessuno potrà pretendere alcunché. Nessuno straniero potrà rientrare in possesso dei suoi soldi (in Dollari USA) se Lehman (o l’amministrazione americana) non vuole o, se preferite, i soldi stranieri investiti in America resteranno in USA.


Andiamo avanti.


Da più parti leggiamo, con ragione, che ci sono alcuni Stati, come la Cina, l’India e forse anche la Russia, che grazie alla globalizzazione stavano mettendo in cascina capitali straordinari, con ritmi di crescita impensabili per Stati pur ricchi e potenti come gli Stati Uniti.

Nel giro di una ventina d’anni (forse meno) questi Stati hanno guadagnato cifre enormi che necessariamente debbono essere reinvestite per salvarsi dall’inflazione e ben posizionarsi nel mercato globale. 

Dove vanno questi capitali stratosferici? Nella maggior parte dei casi e con importi molto alti vengono reinvestiti negli Stati Uniti, con Buoni del Tesoro, in Dollari o in azioni e obbligazioni varie. Perché? Perché è il più vasto mercato del mondo e offre le migliori garanzie, pur in diminuzione rispetto al passato. Le alternative appaiono dei nani economici al suo confronto.


Secondo le notizie che circolano sui quotidiani finanziari internazionali in questa fine 2008, la sola Cina pare aver trasferito in USA circa l’80% delle sue risorse finanziarie destinate all’investimento per un importo che potrebbe essere di circa 800 miliardi di Dollari.


Mettiamo che India e altre Nazioni come il Giappone, la Germania e la Russia abbiano ognuna investito nel più grande mercato commerciale e finanziario del mondo cifre paragonabili alla metà di quelle cinesi.

Sommiamo a questi grandi capitali gli acquisti in Dollari necessari per operare sui mercati energetici e per qualunque tipo di scambio internazionale e abbiamo un’idea più chiara della quantità di valuta importata dagli USA: un altissimo finanziamento a costo zero.

Dobbiamo considerare che buona parte di questi capitali potrebbero essere stati investiti nei cosiddetti titoli tossici e al momento (e forse anche per il futuro) ormai inesigibili.


Ne consegue che gli Stati Uniti hanno raggranellato importi che definire da capogiro è un eufemismo, ma che a causa della crisi internazionale che attanaglia tutti, gli USA e buona parte delle loro Istituzioni finanziarie (pubbliche e private) hanno una scusa formidabile per non restituire quanto incassato, adducendo come scusante proprio la crisi che se è vero che ha colpito anche molte istituzioni americane, è altrettanto vero che ha colpito spesso (ma non solo) quelle corporation ormai dedite a mercati più che maturi e che probabilmente sarebbero implose ugualmente in pochi anni. Ad esempio le aziende del settore automobilistico che a questo punto hanno ancora meno scrupoli a licenziare migliaia di dipendenti, mentre non dobbiamo dimenticare che Lehman era la banca d’affari che più delle altre era esposta con l’estero e quindi aveva incassato cifre molto alte da investitori istituzionali esteri (a cui non torneranno che briciole).



Chi abbocca e chi tira le reti.


Da tutto questo potrebbe configurarsi una sorta di 11 settembre finanziario di questo tipo: alcune debacle americane fanno da scudo e giustificano un'ulteriore azione americana: l’impossibilità a tamponare la rovinosa caduta della finanza internazionale, quella stessa finanza che ha investito la stragrande maggioranza dei guadagni delle proprie aziende (fatti grazie alla produzione per conto delle aziende americane e da queste pagate con i dollari che poi sono rientrati in America grazie a questi investimenti) nelle strutture finanziarie del mercato più vasto del mondo, quello degli Stati Uniti d’America.


Con un simile crollo dei corsi borsistici non c’è da aspettarsi di rientrare in possesso dei propri soldi, almeno nel breve e medio termine. D’altro canto gli Stati Uniti possono dimostrare che, seppure tutto potrebbe esser nato a causa dei mutui subprime che evidentemente avevano infarcito di ogni tipo di titolo a livello mondiale, anche loro ci stanno rimettendo l’osso del collo finanziario e per meglio affermare la propria linea possono presentare le aziende coinvolte al negativo che si è cercato di salvare con grande sacrificio finanziario e tutte di alto lignaggio, seppure un po’ traballante, Lehman esclusa. La quale Lehman, però, aveva il piccolo particolare di investire per lo più miliardi presi dall’estero e non dal mercato interno. 


Salvare Lehman avrebbe significato restituire i soldi ai legittimi proprietari? Non salvare Lehman significa mantenere quei capitali negli Stati Uniti?


Possiamo forse dimenticare che i subprime sono stati uno strumento diabolico per creare soldi, tantissimi soldi, dal nulla o quasi? Una stanza degli specchi in cui si moltiplica all’infinito un unico oggetto finanziario che quindi è stato pagato migliaia di volte ma era sempre lo stesso oggetto e quindi solo uno poteva rivenderlo e riscuoterlo con denaro vero. Tutti gli altri (e sono stati tantissimi) hanno comprato un sogno.

Quindi con i subprime gli americani ci hanno dimostrato come si procede per inventare soldi di sana pianta, da zero o quasi. Noi ci abbiamo creduto e abbiamo comprato fumo a piene mani, a loro volta piene di dollari.

Procedendo su questa strada, il resto del mondo ha investito un'ampia fetta del  proprio avere nel mercato immobiliare e mobiliare americano e quando è arrivato il momento topico il resto del mondo ha nuovamente scoperto chi è che tira le reti quando decide c he la pesca è finita ed è ora di tornare a casa.


Un po’ la stessa cosa che accadde nei primi anni ‘90 quando sembrava che il buon vecchio Giappone si sarebbe mangiato gli Stati Uniti in un sol boccone. Ma la storia finì ben diversamente. Vogliamo vedere cosa accade stavolta? 


Io scommetto che se il governo federale non si sarà fatto sfilare troppi milioni di dollari dalle Corporation che stanno ingrassando con le sciagurate campagne irachene e afghane, gli Stati Uniti si ritroveranno con un bel numero di capitali freschi da investire in titoli buoni per guadagnare, la borsa ripartirà, le aziende americane saranno fra le prime ad approfittarne e lanceranno sistemi tecnologici altamente innovativi per il trasporto, l’autotrazione e l’energia in genere. 


La produzione dell’energia per uso civile avrà una spinta eccezionale e simile al secondo dopoguerra, lasciando le ultime gocce di prezioso petrolio per l’uso militare strategico, mentre il resto del mondo si leccherà amaramente le ferite, pensando che guadagnare tanti soldi è bello e gratificante ma non è sufficiente. 


Quello che conta è saperli investire, altrimenti si rischia di renderli a chi ce li ha dati in cambio di un lavoro che se non siamo oculati nell’investimento, rischia di essere stato  svolto gratis. Se non peggio, mettendo a serio rischio l’ambiente e le relazioni sociali interne.


Un’amara seppure importante lezione da imparare. L’ennesima, si direbbe.