In Viaggio col Tempo.


Autore: Flavio Gori


La definizione di cosa sia il tempo da che mondo è mondo ha sempre creato imbarazzi. Quando è nato? Perché scorre in una certa direzione e, apparentemente, senza incertezze? Da dove trae l’energia per avanzare? Perché ricordiamo il passato e non il futuro? Perché si nasce giovani e poi s’invecchia? Perchè le cose appena fatte sono belle, ben levigate e lucide e poi mano a mano che il tempo passa tendono a perdere queste loro caratteristiche? La causa di tutto questo é lo scorrere del tempo? Questo tipo di scorrimento e la sua freccia derivano dall’espansione dell’Universo? E quando l’Universo dovesse rallentare la sua espansione e forse arrestarla per poi invertirla, cosa accadrà al tempo, all’Universo e ai suoi abitanti? Avremo una percezione diametralmente opposta e vedremo ringiovanire ciò che ora invecchia? La morte sarà la nascita e questa la morte? Che significato assume ciò che sta fra la nascita e la morte o viceversa?


Oppure tutto ciò non ha a che vedere col concetto del tempo che scorre in una direzione a cui la nostra usuale percezione giornaliera e quindi la nostra mente si è assuefatta a tal punto che non riusciamo a immaginare una diversa possibilità? Oppure il nostro cervello agisce come un software che rielabora ciò che i nostri occhi vedono in modo da porlo in una maniera che sia usabile dalla nostra persona e da come questa è stata abituata a vedere, ad avere coscienza di ciò che ci circonda? O magari è il nostro cervello che ha deciso di farci avere le sensazioni di cui sopra per chissà quali motivi?


Tutte queste caratteristiche marciano nella stessa direzione, quella che ci fa pensare che il tempo scorre dal passato al futuro, lasciando al presente una fettina molto piccola, come uno spartiacque: prima del presente c’è il passato, ciò che è già stato, ciò che ricordiamo, ciò che non si può oggettivamente modificare.

Oltre il presente c’è il futuro, ovvero l’incerto, quello che deve ancora accadere e in cui possiamo avere qualche speranza di influenza.


Questo rappresenta ciò di cui abbiamo quotidiana esperienza noi e prima di noi i nostri genitori, i nonni e anche, per quanto ci risulta, i nostri antenati. Dunque siamo tentati di pensare che questo è il tempo alle cui leggi irreversibili nessuno può sfuggire.


Nonostante la quasi totalità delle percezioni che tramite i nostri sensi abbiamo siano orientate verso la stessa direzione, una volta che abbiamo potuto usare altri strumenti le nostre sicurezze hanno avuto un sussulto e sembra che vi siano alcune incertezze, come qualcosa che va a rovinare questa nostra esperienza a cui siamo legati in maniera assoluta e incrollabile: il tempo esiste, noi s’invecchia e nessuno è mai tornato giovane. Quindi il tempo non solo esiste ma ha una sola direzione: dal passato al futuro, dove fluisce senza alcuna incertezza. Forse l’unico esempio in tal senso. Come se fosse ipotizzato e quindi percepito e di conseguenza realizzato in un modo ideale ma irreale.


Ma detto questo e come a sparigliare secoli di prove empiriche possenti perché considerate autoevidenti, non possiamo scordare ciò che invece avviene nei laboratori di fisica da oltre 100 anni, sia per le leggi della meccanica classica che per quelle della fisica dei quanti, che pare essere alla base del nostro universo: ogni prova teorica ed empirica eseguita non fa differenza fra un passato e un futuro. Non fa differenza fra un avanti e un indietro nel tempo. Quindi, semplicemente, il tempo cronologico come noi lo abbiamo sin qui rappresentato, sembra non esistere. E’ un nostro convincimento che non sembra poggiare su alcuna verità oggettiva. Come se a livello microscopico le cose che sono alla base di tutto obbedissero a leggi diverse a quelle che sembrano governare le cose a livello macro, quello di cui abbiamo prova giornalmente. Suona strano, diciamolo.

Possiamo qui introdurre un’ulteriore riflessione che riteniamo applicabile anche al concetto di tempo:


Uno degli aspetti più intriganti della ricerca scientifica è dato dal fatto che un’ipotesi o una teoria viene ritenuta più affidabile nel caso in cui sia in grado di predire stati osservabili dalle nostre esperienze strumentali (naturali o meno). Il punto che dovrebbe emergere è il seguente: che tipo di certezza abbiamo per definire ciò di cui abbiamo esperienza come oggettivamente reale e non mèro esempio di realtà influenzata, indotta dai nostri sensi e che di conseguenza potrebbe non avere nulla a che vedere con l’oggettività delle cose in sè?

Quale passo dovremmo compiere alfine di liberarci dal filtraggio delle nostre sensazioni passate al setaccio dal nostro cervello, per essere liberi di vedere ciò che realmente è, come realmente è?


Secondo qualcuno questo sarebbe possibile recidendo alcune connessioni che stanno in mezzo al tragitto occhio-cervello. Possiamo identificare un mezzo meno invasivo? Una volta che si conosceranno con esattezza le influenze che tali orpelli inseriscono nell’oggettività delle cose in sè, sarà forse possibile inserirne di uguali e contrarie in modo da annullarne gli effetti. Naturalmente se tali contro-influenze a loro volta non ne introdurranno altre al momento non ipotizzabili, nè verificabili.

 


C’è un’altra importante e alternativa possibilità: la matematica che sottende la fisica e tutto il nostro mondo ha un baco alla radice. Un baco tale da minarne l’essenza stessa e quanto la matematica intende spiegare. Un po’ lo stesso dubbio di cui parlavamo qualche anno fa a proposito delle misurazioni, di cui rammentiamo brevemente il punto base: dato che possiamo misurare qualunque distanza, anche la più piccola delle più piccole, si riesce a misurare l’avvicinarsi sempre più prossimo a un certo obiettivo con il rischio concreto di non poterlo mai raggiungere. Eppure non è quanto sembra avvenire.


Se vogliamo osservare più da vicino quanto abbiamo giornalmente esperienza, vediamo che il tempo pare avere una curiosa caratteristica che lo farebbe assomigliare ad una sorta di treno: lui corre per conto suo e ognuno di noi entra nel concetto di tempo solo quando sale sulla carrozza che lo trasporta verso il futuro, verso l’invecchiamento, ognuno nel suo invecchiamento apparente, il suo tempo ma all’interno del treno-tempo generale. Quello in cui evolve il tempo di e per ognuno di noi.


Poniamo che io salgo alla fermata numero 20 e diciamo con questo che io nasco alla fermata n. 20.

Mettiamo che qualcun altro vi sia salito (e quindi è nato) alla fermata numero 10. Dalla fermata n. 20 lui ed io andiamo verso il futuro insieme, ma invecchiamo in una maniera che è direttamente collegata con la fermata d’ingresso sulla carrozza e non con la corsa del treno in sé, che comunque viaggia nel suo tempo che contiene tutti i tempo di coloro che accoglie, eppure ogni tempo è indipendente dagli altri.


Quando scendiamo dal tempo - ciò che chiamiamo la morte - il tempo cessa di aver influenza sul nostro corpo che a quel punto si mineralizza, diventa un materiale inerte, irrigidendosi come una pietra ma che nel giro di qualche ora si decompone con un ulteriore passaggio repentino. Una serie di eventi sorprendenti e che ben poco hanno in comune con la fase precedente della nostra presenza su questa terra. A quel punto il treno continua la sua corsa verso il futuro senza di noi e nessuno sulla carrozza, né tantomeno il treno stesso, hanno da soffrire alcuna influenza dalla nostra dipartita e dalla cessazione del nostro tempo. Il tempo generale continua la sua corsa e lo stesso fanno i tempi delle altre persone che già sono sul treno e quelle che in seguito ci saliranno.


Sembra che la discriminante sia la fermata e il tempo ci acchiappa, si aggancia a noi in quel momento. Da quel punto in poi si ha l’innesco temporale, per come lo conosciamo noi, per ognuno di noi. Il nostro tempo continua indipendentemente dagli altri fino alla nostra uscita di scena. A quel punto ci sganciamo da esso? Riprendiamo un’esistenza simile a quanto avevamo prima di nascere, prima di prendere posto sulla carrozza del tempo? Può il tempo avere un senso solo nel campo della vita della materia che possiamo vedere, toccare per come ne abbiamo esperienza qui e ora?


Dunque esistono tanti tempo quante sono le forme di vita o gli oggetti non viventi che esistono nell’intero Universo ed esistono e si sviluppano sulla base del momento d’ingresso sulla carrozza. Non esiste un tempo ma miliardi di tempo, tutti dentro un ulteriore tempo-contenitore di altri tempo-personale, quello che tutto comprende e che ci trasporta verso il futuro. Come un flusso continuo e monodirezionale che tuttavia sembra ramificabile in tanti canali (ognuno di questi che si sviluppa con un proprio tempo pur inserito nella freccia del tempo generale) quanti sono gli abitanti dell’Universo, esseri viventi o meno, qualunque cosa questo significhi nella oggettiva realtà.


Ma perché se tutti saliamo, prima o poi, sulla medesima carrozza e quindi viaggiando tutti insieme nello stesso involucro-tempo verso il medesimo involucro-futuro, invecchiamo in maniera autonoma? Se il tempo esiste e pervade l’Universo, perché non invecchiamo tutti insieme, perché non esiste un sistema unico, un’unica via come unica è la carrozza su cui saliamo, quella che ci trasporta verso lo stesso (per tutti) luogo chiamato futuro? Sembrerebbe ovvio che se siamo su un mezzo di trasporto che ci porta da qualche parte, questo mezzo è l’aspetto più importante per il nostro viaggio. La discriminante temporale che tutto e tutti pervade. 

Invece sembra che l’aspetto più rilevante siano le fermate in cui saliamo sulla carrozza-involucro temporale.

A quel punto procediamo tutti insieme nell’unico involucro-temporale ma ognuno resta fedele al punto di salita a bordo, quando il tempo innnesca la sua esistenza ad personam. Un tempo che si evolve dentro un altro tempo, quello che trasporta tutti verso un qualcosa chiamato futuro? Possibile? Come se il tempo esistesse indipendentemente da noi, prima e dopo la nostra presenza sul treno. Ma allora perché ognuno di noi ha anche un suo tempo all’interno del tempo comune che a questo comunque si rifà per determinare la propria velocità di scorrimento?


Può tutto questo essere coerente con l’esistenza del tempo o non è piuttosto la dimostrazione che la fermata è in realtà un interruttore che accende o spegne (quando scendiamo dalla carrozza) un certo gene che determina la nostra evoluzione materiale una volta a bordo? Ma l’essere a bordo coincide con il seguire una forma di tempo o non è piuttosto la conferma che gli interruttori sono concepiti per darci una forma di vita a tempo, per rimanere sul nostro terreno delle percezioni a cui siamo abituati, ma che nella realtà oggettiva delle cose il tempo non esiste se non come unico momento nel quale ci muoviamo in maniera proporzionale all’ingresso nella carrozza di cui sopra?


Allo stesso tempo non dobbiamo dimenticarci che ogni giorno che passa le nostre cellule si rinnovano e dunque oggi siamo più giovani di ieri e meno di domani. Ma allora di quale tipo di giovinezza e vecchiaia stiamo parlando? Noi siamo gli stessi oggi rispetto a quando eravamo bambini, ma in realtà non abbiamo più alcuna cellula che è rimasta la stessa rispetto ad allora. E dunque in quale senso possiamo affermare di essere la stessa persona? Come altri hanno osservato, dobbiamo cambiare continuamente per essere lo stesso soggetto? 


Cosa fa si che noi, pur cambiando continuamente, restiamo la stessa persona? E dunque pur completamente immersi nel tempo, siamo in qualche modo da esso indipendenti?

Abbiamo un’esatta percezione della materia o questa, ciò che i nostri sensi osservano, viene filtrato dal nostro cervello e come conseguenza di queste filtrature noi percepiamo una realtà diversa dal reale oggettivo? 


A seguito di questi aspetti, i nostri concetti d’invecchiamento e quindi del trascorrere del tempo e delle sue supposte influenze sulla materia dovrebbero essere riconsiderati dalla radice? Forse includendo quella sorta d’interruttore d’innesco che è la fermata dove prendiamo posto sul treno che corre, per conto suo, verso il domani.


 



I geni sono indifferenti al nostro destino?


Negli ultimi anni abbiamo avuto numerose scoperte nel campo medico che ci hanno illustrato alcuni esempi scientificamente provati sul fatto che noi esseri umani, come si conviene a delle buone e brave macchinette, siamo composti da numerosi interruttori, che abbiamo deciso di chiamare geni, a cui dobbiamo praticamente ogni nostro aspetto esteriore e interiore. Si tratta di una novità piuttosto importante in quanto testiomonia del fatto che non siamo esseri immutabili, né siamo costituiti da organi preposti ad un unico tipo di funzionamento.

C’è un gene che si attiva per regalarci il colore degli occhi, un altro si interessa del carattere, oppure quello che ci salva da un cancro virale (1) e un altro ancora si occupa della memoria. Anzi della memoria paiono essere in numero maggiore: uno ha funzioni particolari e se fosse spento, se non lavorasse, ci spiegano i biologi, avremmo capacità intellettive  superiori (2). La notizia è di per sé sorprendente: il corpo umano è composto di strumenti in funzione ed altri non in funzione.

Ma quando ero bambino i maestri, i professori, i sacerdoti, tutti mi dicevano che niente nel nostro corpo è in più e niente in meno rispetto a quello che ci serve, salvo l’appendice. E allora?


Allora, probabilmente, il corpo umano e la nostra mente, sono organi ancora e per una certa parte, non conosciuti, neanche per quanto riguarda il numero dei nostri organi, dei nostri geni, nè sappiamo tutto delle loro azioni. Il che significa che potremo attenderci per il futuro più o meno prossimo ulteriori scoperte relative all’uso che di tali geni facciamo e di quello che potremmo ancora fare. Ma se sono spenti, chi li potrà accendere? E perché e quando? E perché fino a quel momento ha deciso di tenerli spenti senza neanche avvisarci delle loro potenzialità? Stessa questione vale al contrario, come abbiamo visto poc'anzi.


Una serie di argomenti particolarmente stimolanti a cui non è facile dare risposte serie, ammesso che sia possibile capire la logicità di tali scelte e del poterle classificare più o meno serie dato che non ci è conosciuta la radice del pensiero da cui si originano. Nè possiamo affermare con sicurezza che seguano il nostro o i nostri concetti di logicità.


Riflettendo su queste ultime questioni non si griderà allo scandalo se la soluzione al problema del tempo, al perché ricordiamo il passato ma non il futuro, arriverà dalla biologia o dalla genetica ma non dalla fisica o dalla filosofia. Almeno in prima battuta.




Creiamo il nostro futuro.


A quel punto la genetica, la fisica o la filosofia potranno forse spiegarci, speriamo, il motivo per cui siamo stati programmati per avere meno possibilità di conoscere o di renderci conto di cosa stiamo vivendo nella realtà oggettiva spegnendo quel piccolo gene, magari conosciuto ma per altri motivi. Per altre funzionalità che in effetti potrebbe parallelamente svolgere. 


Azzardo un’ipotesi per spiegare il motivo della non conoscenza delle potenzialità di quel gene: dovevamo avere almeno l’illusione (un’altra!) di poter definire il nostro futuro senza capire che tutto è già impostato. Dovevamo studiare, imparare, fare esperienza per poter andare avanti verso quello che ci aspetta, per meglio interpretarlo.


Sostanzialmente il paradigma su cui basiamo la nostra vita secondo la filosofia occidentale deve essere rovesciato facendo i conti con l'irrealtà del libero arbitrio:

quello che chiamiamo futuro sottende quello che tutti siamo chiamati a svolgere per raggiungere un risultato quotidiano e/o generale che, al momento, ci sfugge completamente. Pertanto quello che noi decidiamo di fare ogni attimo della nostra vita non ha niente a che fare col nostro inesistente libero arbitrio ma è quello che siamo indotti a compiere in virtù dei passi necessari a raggiungere un certo scopo parziale ma in linea con uno finale che riguarda tutti gli abitanti di questa Terra e di questo Universo, dal brevissimo al lunghissimo termine. Dobbiamo tendere ad arrivare ad una certa meta collaborando ognuno per la sua parte, per la quota che ci compete, quella per cui siamo qui ora e non prima e non dopo. E non parlo solo del genere umano.

Per meglio dire: noi possiamo essere qui prima, adesso e dopo (qualunque significato oggettivo tali parole possano avere), ma per compiere azioni diverse seppur sempre parte di quelle attività necessarie per raggiungere quello scopo finale per cui tutti gli abitanti della Terra sono stati, sono e saranno qui. Rientra in ballo il concetto del destino? Riflettiamo senza lasciarci chiudere dall'uso di certe parole, che fin troppe volte hanno creato attriti fra le persone. Talvolta parole diverse per concetti simili hanno contribuito alla creazione di pareti culturali difficili da scavalcare a allora, per una volta, limitiamoci ai concetti.

 


Bello, consolante e gratificante credere che possiamo decidere del nostro futuro. Ma anche irreale. Crollo delle impostazioni di numerose credenze biologiche, filosofiche, religiose e chissà che altro. Allo stesso modo crollano tutte le teorie, o ipotesi, secondo cui certe persone sono più abili di altre nel farsi, nel costruirsi un futuro. Finché non conosceremo il disegno generale non potremo mai dire quale di noi avrà compiuto una parte migliore o più significativa di un’altra. Né per sé, né per la sua famiglia, né per chi gli sta intorno, seppure distante milioni di chilometri.

Restiamo nei sogni a cui ci fa piacere credere per una curiosa forma di auto stima (o disistima) portata all’eccesso. A volte è interessante riflettere su come certe realtà ci sembrino vere, oggettive solo perché ci siamo abituati a viverle in un dato modo, o perché fa piacere crederci!


Innestandoci su concetti a cui siamo molto legati potremmo dire che gli esseri viventi evolvono da un forma genetica di base straordinariamente simile per tutti, almeno per come sembra emergere dagli studi più recenti sul genoma. Ma il concetto di vita potrebbe essere assai più ampio e slegato dal concetto di corpo vivo, senziente e animato che noi abbiamo. 


L’intervallo fra nascita e morte per come noi siamo avvezzi ad averne coscienza potrebbe non esaurire il concetto reale di vita ma solo essere parte di quella parziale coscienza che i nostri sensi hanno già dimostrato di avere, ad esempio, nel caso delle onde radio che identificano il visibile dal non visibile, oppure le onde acustiche che identificano l’ascoltabile dal non ascoltabile. In entrambi questi casi siamo ben lungi ormai dall’identificare l’esistente dal non esistente sulla base del visibile o dell’ascoltabile. 


La stessa cosa potrebbe essere nel caso della vita rispetto alla non vita. La nascita sarebbe semplicemente l’ingresso del senziente nel raggio di quanto le nostre facoltà materiali percepiscono ed allo stesso modo la morte sarebbe l’uscita da tale raggio. La vita in quanto essere, esistere, potrebbe avere un raggio d’azione assai più ampio e, al momento, solo ipotizzabile. E allora la divaricazione fra mente e corpo nel corso della vita ovvero il progressivo decadimento fisico controbilanciato dall’affinamento mentale, spirituale, arriva ad essere meglio accettato, meglio capito. Il corpo assume sempre più le vesta di un involucro grazie al quale la mente, l’anima o comunque la parte immateriale di noi, compie un certo passaggio. Partendo dal momento dell’ingresso nel campo materiale e continuando fino al momento dell’uscita da questo, per le successive mete. Materiali e immateriali. Ad ognuno di questi stati vi saranno capacità autocognitive in grado di rilevare il proprio essere rispetto a sè stesso e al mondo circostante, ma non è detto che sia possibile verificare tali esistenze quando saremo in essere in altri modi. Specialmente nello stato materiale rispetto all’immateriale.


In tale caleidoscopico scenario, il concetto di tempo di cui abbiamo consuetudine torna a perdere di significato, relegando le nostre sensazioni sull’invecchiamento a mere questioni sensoriali, retaggi dovuti alle specificità dei nostri attuali sensi, membra e mente, protesi imperfette a loro volta gestite, influenzate da una mente che ci restituisce realtà fittizie su cui poggiamo fin troppe delle nostre attuali sicurezze. 


Pur tuttavia il concetto cronologico può tornare utile per meglio realizzare quella sorta di cammino verso la meta che sembra pervadere certe parti della nostra vita materializzata. Questo per non voler giungere alla conclusione che il concetto di tempo cronologico sia solo una conseguenza dell’organizzazione di vita commerciale che pervade il nostro vivere nell’ottica filosofica occidentale attualmente in auge.


Continuando lo studio in queste direzioni pare di scorgere un altro piccolo tassello del piedistallo che ci siamo pervicacemente costruiti che sembra sul punto di crollare. Avremo la forza di studiare fino a quel livello? O cercheremo di procrastinare l’illusione per paura che l’intero castello illusorio, individuale e collettivo, crolli senza meno? 

Sicuramente ci saranno resistenze di ogni tipo da parte dei vari poteri che davanti a una simile messa in discussione faranno di tutto per cercare di non perdere alcun centimetro del loro potere, conquistato e mantenuto con la forza dell’illusione obbligatoria. Di una realtà virtuale assoluta.

 

E’ interessante riflettere su come la società del computer sempre interconnessa a sè stessa tramite la rete Internet e proiettata sul presente ed ancor più sul futuro, possa in qualche modo basarsi sul concetto di virtuale fino al punto di farlo percepire come reale. Così come tali sono intese amicizie e ooggetti in rete che nessuno può materialmente toccare o mettere alla prova in senso classico.

In questo modo ogni verità associata al virtuale e dunque all’irrealtà, tenderà a essere intesa da un lato come positiva in quanto attuale e dall’altro come effettiva e reale.

Con l’uso e l’assuefazione non si può escludere di esser portati a scambiare cose intangibili per tangibili, con tutte le insufficienze del caso.


Sotto questa visione assume una rilevanza particolare la scelta di quelle persone che in varie epoche hanno compiuto scelte simili astraendosi dalla vita normale per ricavarsi un luogo di studio e riflessione lontano dalle comunità standard delle loro epoche. Come per cercare un’area libera da interferenze da cui ripartire per vagliare la realtà oggettiva delle cose e degli esseri viventi nel nostro ambiente naturale. Il fatto che ciò sia avvenuto in ogni epoca e avvenga tuttora mi porta a pensare che si tratti di un’esigenza non casuale ma anzi frutto di ricerche non dipendenti dalle logiche delle varie epoche e quindi libere dalle influenze dei vari tempi. Esigenze figlie di logiche invarianti perché il tempo non ha su di esse alcuna influenza. Le nostre vite, quelle dei nostri antenati e quelle dei nostri  pronipoti, sono vissute in un unico contenitore temporale, un unico tempo. Come se il tempo fosse una sovrastruttura di secondo livello, una variabile ininfluente perché non esistente, al di là dell’apparenza. Al di là di quello che altro non è che una nostra creatura.


Una creatura utile e forse allevata con cura per nascondere altro, da cui potrebbero scaturire cambiamenti non desiderati in certi ambiti.


E in effetti le resistenze da parte di numerosi poteri si sono dispiegati per rallentare (se non proprio bloccare) gli studi in atto, ma la loro fine è ormai nei fatti. E’ solo questione di tempo.





Bibliografia:


1) Silenced genes drive viral cancers? da www.the-scientist.com/blog/display/55410/ (serve registrazione);


2.a) 11/4/2007 da Corriere Salute online La scoperta pubblicata sulla prestigiosa rivista «Cell» Gene «spento» e il topo ha la memoria-super;


2.b) 5/4/2007 da Washington Post Genetic Mutation Boosts Memory di Steven Reinberg.