Dopo il re-inizio la restaurazione.


Autore: Flavio Gori


Pochi mesi orsono abbiamo dedicato qualche commento al re-inizio della storia, se mai fosse terminata come un buontempone s’arrischiò ad affermare pur di salire di corsa sul carro del presunto vincitore quando l’USSR decise il suicidio.


Al di là del fatto che la Storia certo non si cura della sparizione o meno di una pur influente Nazione com’era l’Unione Sovietica, uno dei punti che si mettevano a fuoco nell’articolo precedente era che gli Stati Uniti avevano in qualche modo colto (o creato) l’occasione d’oro del crollo dei corsi borsistici internazionali per globalizzare le perdite, i licenziamenti, i drammi economici e personali di vario tipo in modo da dare agli stessi USA la possibilità di: 

1) ripagare in minima parte alla Cina e gli altri Paesi che producevano per loro, i manufatti poi importati e rivenduti negli USA, creandosi un surplus finanziario importante; 

2) portare a loro discolpa il coinvolgimento nella crisi, ad esempio con la chiusura di aziende una volta alla base della grandezza economica americana come  le tre maggiori case automobilistiche, ma non da oggi aziende ormai più che mature e con vari indici economico-finanziari a precipizio da una decina d’anni.


Bene. Proviamo a entrare più nel dettaglio per meglio capire alcune problematiche che gli Stati Uniti non potevano più permettersi e nel contempo sottolineare la pessima conduzione delle tre aziende di Detroit che già a fine del secolo scorso erano ormai chiaramente sul viale del tramonto senza che nessuno, a cominciare dai rispettivi consigli di amministrazione, se ne preoccupasse poi tanto.


Come riporta l’edizione inglese di Le Monde Diplomatic nel numero di marzo 2009 (1), per restare al presente secolo la forza lavoro delle tre grandi case dell’auto americana è diminuita costantemente dal 2000 (1.6 milioni di dipendenti) al 2008 (732.000 a settembre 2008), sia nei lavoratori direttamente impiegati che nell’indotto. Sono stati chiusi impianti a partire dal 1999 (Delphi) e nel 2000 (Visteon). La quota di mercato che esse avevano in terra americana nell’anno 2000 era pari al 65%, calata poi fino al 46.5% a fine 2008. Tutto questo nonostante campagne promozionali martellanti ma basate solo su sconti di prezzo al cliente finale che altro non facevano che diminuire i loro margini di profitto senza incontrare la domanda degli acquirenti in termini, ad esempio, di qualità del prodotto. Un esempio non così raro di marketing a corto d’idee e che ha perso il polso della situazione. Anche qui Europa ci sono stati alcuni casi di questo tipo, proprio in aziende del ramo automobilistico.


Nel frattempo e in evidente contrasto, le aziende giapponesi hanno aumentato la loro capacità di costruire negli Stati Uniti portando a 17 il numero delle loro fabbriche e a 65.000 il numero dei dipendenti in territorio americano. Nel 1985 le auto giapponesi prodotte in USA erano 296.000, mentre a fine 2007 avevano raggiunto la ragguardevole cifra di 3.3 milioni. Oggi il 63% delle vetture giapponesi vendute in USA sono prodotte in loco.

Negli ultimi anni, mentre le case americane vivono una delle loro peggiori crisi, i maggiori gruppi automobilistici giapponesi hanno racimolato nel mercato USA fra il 60 e il 70% dei loro guadagni. Dunque mentre da più parti (occidentali) si continua a dire e scrivere che le aziende occidentali si possoano ssalvare solo se andranno a delocalizzare a Oriente, dall’Oriente si segue una strada inversa raggiungendo rislutati eccellenti. Probabilmente la questione è diversa e riguarda direttamente le capacità dei manager di saper fare il loro lavoro. Nel caso automobilistico in terra americana siamo davanti a un lampante esempio di diverso approccio al mercato e, di conseguenza, di un risultato diametralmente opposto, pur in regime di vacche molto magre rispetto a pochi anni fa.


Lo Stato americano ha fornito nel corso del 2008 una serie di aiuti alle tre case automobistiche, in certi casi collegandoli a richieste di risanamento in tempi così brevi da risultare irrealistici. Ciò non deve portare a pensare che quei capitali possano essere interamente usati per risollevare l’industria in crisi. A differenza del sistema pensionistico italiano, ad esempio, quello americano prevede che parte del welfare cui il lavoratore ha diritto sia a carico all’azienda che crea un fondo specifico per coprire sia le pensioni che l’assicurazione sanitaria per i dipendenti.

Quindi parte del finanziamento concesso alle case è stato necessariamente usato per permettere a questi fondi di continuare a erogare i servizi previsti per legge ed anche questo, nota giustamente Le Monde Diplo, fa capire l’impatto che l’assenza di una politica nazionale sul sistema di sicurezza sociale, può avere sull’economia nel momento della necessità.


Da questi dati risulta evidente che il problema per le Big Three di Detroit non nasce con la crisi ma ha radici assai più lontane. Invece grazie alla crisi potrebbe approfittare per disfarsi di un’industria ormai inutile se non dannosa all’economia generale americana in quanto ormai, e per vari motivi, non più in grado di sopportare la concorrenza. C’è un altro aspetto che potrebbe aver convinto gli strateghi americani a disfarsi della ormai fin troppo costosa industria dell’auto: il petrolio è ormai agli sgoccioli e quel poco che ancora può essere pompato deve essere appannaggio dell’industria militare che non può permettersi sistemi energetici in grado di fornire adeguata potenza per gli scopi che i militari e gli Stati Uniti si prefiggono.


Questo fa rilevare un altro dei problemi connessi con l’uso poco avveduto dell’industria spesso collegato con il liberismo più spinto, quello che porta a massimizzare i guadagni nell’immediato anche a danno di quei costi necessari al buon funzionamento dell’azienda come quelli per la manutenzione degli impianti e gli investimenti per il buon uso futuro degli stessi. Molte delle aziende petrolifere hanno preferito rimandare tali investimenti, forse vedendoli come intralci ai guadagni dell’impresa da cui derivavano i bonus per i manager di alto livello e quindi anteponendo i propri guadagni al futuro dell’azienda. Da questo consegue direttamente una diminuita capacità per l’impresa di mantenersi ai livelli tecnologici necessari per operare adeguatamente nei mercati internazionali, specie in momenti in cui, come adesso, non solo abbiamo una forte crisi finanziaria ed economica, ma addirittura esiste un’oggettiva penuria di materia prima da scindere in due parti:

a) da un lato il petrolio estratto con le attuali tecnologie diminuisce al ritmo medio di circa il 3.4% annuo (fonte Financial Times 4/2/2009) e dal 1980 non sono stati individuati campi petroliferi di primo livello;

b) dall’altro il prezzo alla pompa in diminuzione non rende economicamente sostenibile (per gli standard attuali di guadagno richiesto) lo sviluppo di tecniche alternative per ricavare oro nero in possibili pozzi a maggiore profondità, oppure nelle sabbie di alcuni Paesi che potrebbero fornire ulteriore petrolio ma a costi di trattamento più alti.

Nel frattempo le linee di trasferimento del greggio dalla produzione alle aree di raffinamento continuano a perdere materia prima a causa di scarsa manutenzione e sostituzione, dando un ulteriore problema di costi diretti e indiretti (come quelli connessi con l’ambiente).


Queste problematiche non sono certo a carico delle sole aziende petrolifere americane. Norvegia, Gran Bretagna, Olanda Russia e Cina devono affrontare anch’esse questi scogli, ma in alcuni casi si sono rivelati più attente agli investimenti delle loro colleghe d’oltre oceano, specie in relazione al mantenimento e sostituzione delle linee con altre più avanzate tecnologicamente.


Da queste note consegue che attualmente le attività economiche e commerciali che ruotano intorno all’oro nero non possono essere considerate il futuro dell’energia nel mondo. E’ quindi irrinunciabile investire in seri studi e ricerche che ci possano portare verso un modo meno dispersivo non solo di consumare energia in senso generale ma anche, e più vicino a ognuno di noi, per i modi di viaggiare, utilizzando materia prima non inquinante e riutilizzabile. Ogni giorno che passa senza mettere in atto questo approccio, ritarda il corretto affrontare di un problema che si ripercuoterà drammaticamente sul mondo dei nostri figli. Illuderli che niente cambierà nel loro modo di affrontare la vita e che per andare bene il mondo deve tendere alla crescita continua di questo nostro attuale sistema, è solo illogica demagogia, che più prima che poi si trasformerà in un amaro e costosissimo boomerang.


A meno che il motivo per cui tutta questa euforica pantomima continua (e per il quale la crisi mondiale può servire come un detonatore), non sia quello di ridurre milioni di persone anche in Occidente a vivere in povertà con un salto all’indietro nella storia del proletariato del mondo. Un proletariato a cui si uniranno (loro malgrado) tanti altri esponenenti della piccola e media borghesia, cui per anni è stato fatto credere di essere una specie di piccola crema: il ceto medio e medio alto. Tanto per dividerli dal proletariato acclamato e creare meno lotte di classe che potevano urtare la suscettibilità delle classi al potere.

Una volta in vera povertà saremo più facilmente gestibili. La fame, come vediamo adesso con la paura, è sempre un ottimo motivo per obbedire a chi offre anche un solo tozzo di pane raffermo che avanza dalla sua tavola. La questione culturale passerà in terzo o quarto ordine e il potere si rafforza.


Chi di noi negherà un bel sorriso di riconoscenza a chi, digrignando i denti bianchi e dorati, si avvicinerà per offrirci un bello ma ben stretto collare anche se non nuovo di fabbrica?




Bibliografia:

1) Laurent Carroué, US car industry runs out of gas, The first victims of managerial incompetence are the workers. Le Monde Diplomatic edizione inglese Marzo 2009